i seni di Çatalhöyük

A fronte delle certezze manifestate dal Mellaart negli anni sessanta, vediamo come esistano dei forti dubbi, evocati anche dall’Hodder trent’anni dopo, in merito all’accettazione di quelle rappresentazioni in rilievo, trovate nei santuari dei livelli antichi, che un osservatore esterno (se pur attento) difficilmente potrebbe ricondurre ai seni della donna.
Abbiamo detto, in altra sede come, i santuari e le cumbessìas pieni di sepolture del sito di Çatalhöyük, non possano in alcun modo, essere inglobati in un insediamento urbano, ma siano isolati nel loro insieme costruttivo, attestandosi geograficamente lontani molti chilometri, dai molteplici insediamenti abitativi, che erano la naturale sede del vivere civile delle popolazioni che frequentavano il Luogo Santo di Çatalhöyük.
Bene, se trattasi di Luogo Santo, possiamo credere presenti nello stesso, manifestazioni che attengano alla sfera trascendente, le quali dobbiamo esser pronti a decodificare, decriptando quelle rappresentazioni simboliche dall’aspetto oscuro, calandoci, ove possibile per i moderni schemi mentali, nei collegamenti che mossero quella antica, straordinaria spiritualità.
Crediamo di sapere (e per ora crediamo) che il defunto, dopo i necessari riti familiari del post mortem, venisse portato nel Luogo Santo, esposto alla decomposizione ed offerto alla scarnificazione. Tale ultima operazione (che riteniamo esito di ponderata arcaica tradizione ed osservazione) veniva effettuata dagli avvoltoi, i quali liberavano il defunto dei resti putrefatti, lasciando lo scheletro perfettamente pulito, in una sorta di rito liberatorio delle parti inquinate ed ormai superflue. 
Quei simboli dall’aspetto cilindroide, che il Mellaart identificava come seni ed ai quali l’Hodder non riesce a dare significato, che si presentano come protuberanze fuoriuscenti dalle pareti dei santuari, ma aventi al loro interno il teschio del rapace, del quale si intravvede il forzuto becco, crediamo non possano essere dei seni. Essi crediamo rappresentino l’ideale passaggio del defunto (essendo l’aldilà posto dall’altra parte del muro), il quale avviene necessariamente attraverso il lavaggio della sua anima delle impurità assorbite nella vita terrena; tale lavaggio, compiuto dall’avvoltoio, rende pulite (quasi splendenti) le ossa dell’individuo, affinché possa, in condizioni di ideale nudità virginea, tornare alla terra con la certezza d’essere nella qualità richiesta, per agganciare un nuovo ciclo di vita, certo con l’ausilio fondamentale della indispensabile Donna, nel cui concetto è condensato il fluire perenne delle sue qualità peculiari: sposa, raccoglitrice del seme, gestatrice, partoriente, madre, allattatrice, datrice di vita alla futura comunità.
È, questa, certo la narrazione di una creatura canonica manifestatasi nel Mesolitico, fra aree geografiche che oggi definiamo Europa ed Asia. Ma, ne è pur sempre una nostra personale lettura; essa è per ora solo un racconto che, per trasformarsi in historia ha necessità d’essere sindacata in tutti i suoi propri recessi dati, inserendone l’esito (senza strappi logici), in una visione più macroscopica.
La spinta a presentare questo contributo (da inserirsi nel cammino Sardegna-Danubio), che apparentemente non tratta di cose sarde, è invece data dalla consapevolezza che, partecipi di questa elaborazione cultuale, fossero in una certa misura (la cui imponenza dobbiamo ancora mettere in chiaro), anche i Sardiani.
I paleolitici abitatori della Sardegna, che espressero una dominanza marinaresca sul Mediterraneo occidentale (a partire almeno dal XIII millennio prima d’ora, come espresso in altra sede), furono certo in contatto con le Genti Danubiane, ma anche con la Gerico Preceramica A (X millennio prima d’ora), come potenzialmente lascia intendere la lacunosa analisi di Cann-Renfrew (sulla origine delle ossidiane colà rinvenute), la cui posizione fu da noi stigmatizzata in compagnia, fra gli altri, di Thorpe-Warren-Nandris e Bloedow.